Come guarire dalla Sindrome di Beth
L'Accademia delle Zitelle - Una lezione tratta da 'Piccole Donne'
Docenti: Louisa May Alcott / Aida Vittoria Eltanin
“Care Lettrici di ‘Piccole Donne’,1
ho una confessione da farvi. Ho passato tutta la vita a cercare di essere come la mia cara sorellina Beth e ho fallito miseramente. Ho poi cercato con tutte le mie forze di renderla l'eroina di ‘Piccole donne’, ma ho fallito anche in quello.
A quanto pare, alle ragazzine non interessano più un granché le sante. Chi l'avrebbe mai detto? Vi siete tutte innamorate di Jo invece: la mia rappresentante goffa ed egoista - il mio alter-ego brontolone e pieno di difetti, e questo nonostante tutti i miei sforzi per dipingervela fin dal primo capitolo come una ragazzaccia impaziente e sarcastica, dalla lingua tagliente, lo spirito irrequieto e l’umore altalenante.
Potete quindi immaginare quanto io sia rimasta sorpresa dal successo del mio libro.
Non fraintendetemi… Ero felicissima di sapere dell'apprezzamento di voi lettrici, e quei diritti d'autore mi hanno reso una fortuna, soldi con cui sono finalmente riuscita ad alleggerire la vita dei miei genitori. Ma era troppo tardi purtroppo per alleviare i fardelli di mia sorella Beth.
Quando ‘Piccole donne’ venne pubblicato, il mio piccolo angelo ormai era già volato in cielo. Tuttavia, spero che il mio libro, e questa mia lezione, risparmieranno almeno ad alcune di voi il suo triste destino.
Inizierò quindi subito con la prima domanda: voi siete una Beth o una Jo?
Se le persone vi dicono spesso: “Sei troppo buona”, “Sei un angelo”, o “Come fai a sopportarlo?”, allora è probabile che voi siate una Beth che ha bisogno urgente di essere salvata, perché lasciate che ve lo dica chiaro e tondo: la sindrome di Beth può essere mortale.
Se non siete una Beth, forse ne conoscete una: vostra sorella, un'amica o una figlia o una vecchia versione di voi, una persona timida e silenziosa, seduta in un angolino buio della casa e che vive per gli altri così allegramente che nessuno vede i suoi sacrifici, fino a quando un giorno il piccolo grillo del focolare smette di cantare, e la sua dolce presenza solare svanisce, lasciando dietro di sé solo silenzio e ombra.
Mia sorella Betty era molto amata da tutta la famiglia, ed era davvero pura, gentile e santa come l’ho rappresentata in ‘Piccole donne’. Era la nostra piccola governante e il nostro angelo del focolare. Era il passerotto di casa, la santa sempre allegra che cercava di tenere al caldo i nostri genitori e che rendeva la casa accogliente e luminosa per noi lavoratrici, senza mai lamentarsi.
Uno dei miei primi ricordi di Lizzie, come la chiamavamo tutti, è di me che giocavo con alcuni libri nello studio di mio padre. Stavo costruendo delle case e dei ponti con i suoi grandi dizionari e diari. Io e mia sorella Anna - la Meg di ‘Piccole donne’ - stavamo costruendo un'alta torre di libri attorno alla piccola Lizzie mentre lei era seduta sul pavimento a giocare con i suoi giocattoli, e attratte da qualcosa fuori in giardino, ci dimenticammo della nostra piccola prigioniera. I miei genitori cominciarono a cercarla, e la paziente bambina venne finalmente scoperta tutta raggomitolata e profondamente addormentata nella sua cella di prigione, da cui emerse così rosea e sorridente dopo il suo pisolino che noi bambine fummo perdonate per la nostra negligenza.
Ma cosa deve aver provato Beth per tutto quel tempo, così abbandonata da sola al buio? Purtroppo, le Beth del mondo vengono facilmente trascurate perché raramente si fanno sentire. Noi Jo, invece? Ci facciamo sentire eccome! Brontolando, scrivendo, alzando la voce quando necessario. Forse è per questo che tutte voi l'avete amata: dopo secoli di eroine silenziose dai comportamenti decorosi, le ragazze vittoriane ne avevano avuto abbastanza...
Elizabeth era nella nostra cerchia familiare quello che Beth è in ‘Piccole donne’.
Era diversa da me e dalle mie altre sorelle. Aveva un'anima innocente e nascondeva i suoi sentimenti in silenzio. Riservata per carattere, Beth avrebbe volentieri vissuto per sempre nella privacy di casa nostra, il suo unico desiderio era la musica che amava suonare al pianoforte. Teneva casa nostra ordinata e confortevole, non pensando mai a nessuna ricompensa se non l’essere amata dai pochi di cui si fidava, lì seduta contenta nel suo angolino oscuro della stanza. O almeno sembrava contenta, ma se aveste guardato più da vicino avreste visto che spesso sospirava, un piccolo sospiro che nessuno sentiva, tranne il bollitore sul focolare, mentre lei si metteva in testa, nella sua piccola anima, di diventare tutto ciò che i loro cari speravano di trovare in lei.
Le ragazze come Beth non si lamentano quasi mai apertamente, perché credono che non sia bello farlo. Quando si lamentano, non vengono sempre prese sul serio, perché queste piccole creature casalinghe sembrano non avere nessun fardello sulle spalle o i loro fardelli sembrano così buffi che tutti ne ridono, e quindi imparano a stare zitte. E quando finalmente trovano il coraggio di dire ciò che pensano, con un piccolo tremito nella voce, si stupiscono della loro stessa audacia e arrossiscono come una rosa, fino a temere quasi di aver offeso. E quando parlano, le persone non prestano caso a una come Beth più di quanto non ne prestino a una mosca.
Non essendo però un angelo in carne ed ossa, ma una ragazzina molto umana, a volte piangeva anche Beth, soprattutto quando si rendeva conto che non poteva avere le cose che desiderava di più, come un bel pianoforte per esempio. Ma anche quando desiderava ardentemente qualcosa, non riusciva a trovare il coraggio di andare a prendersela da sola. Aspettava che le arrivasse da altri. Dato infatti che le donne come Beth non osano farsi intendere e spendono spesso le loro energie - se non i loro soldi - per gli altri, finiscono sempre per sperare che qualcuno le legga nel pensiero, noti silenziosamente i loro problemi e le aiuti dall’alto. Beth credeva che qualcuno con più mezzi di lei dovesse generosamente aiutare le brave persone a ottenere quel che si meritano, ma non è così che funziona la vita... Le Beth del mondo però credono nella giustizia, in Dio e nelle fate. Non accettano l'evidente verità che la vita non è giusta. Le Jo del mondo invece l’accettano, e poi combattono con le unghie e con i denti per ottenere ciò che vogliono, senza aspettarlo da un salvatore della patria.
Non so se per costituzione, o per come era stata allevata o per qualche trauma infantile che aveva rovinato suoi poveri nervi, ma il fardello peggiore per nostra sorella Beth era l’aver paura della gente. Veniva così facilmente spaventata al punto tale che anche le cose più piccole le facevano paura. Ecco perché amava stare a casa: il mondo esterno era troppo spaventoso e lei era troppo timida per affrontarlo. Quindi se ne rimaneva tranquilla e occupata e rimuginava sulle sue cose da sola. Nessuna persuasione o attrattiva poteva aiutarla a superare una tale paura. Non condivideva spesso i suoi sentimenti neppure con noi, perché - come scrisse nel suo diario - non credeva "fossero di alcun interesse per nessuno della famiglia". Solo a volte, con qualcuno di speciale di cui si fidava completamente, parlava con loro come se li conoscesse da una vita, perché l'amore scaccia la paura, e la gratitudine sa vincere l'orgoglio.
Lunghe e tranquille giornate trascorreva mia sorella Beth, non solitarie né oziose, perché il suo piccolo mondo era popolato da amici immaginari, e faceva da mamma a molte bambole di pezza. Creò persino un ospedale per una di loro, che era invalida. Le cantava ninne nanne, e non andava mai a letto senza aver baciato il suo visetto sporco. Donne come Beth sono spesso le infermiere, i medici e i guaritori del mondo. Sono coloro che cercano di sollevare tutti intorno a loro quando sono giù di corda, o malati. Sono le consolatrici e le dispensatrici di baci e abbracci.
Forse non vi sorprenderà sentire che Beth era anche una protettrice dei gatti. Adorava i gattini, ed era inorridita quando qualcuno era cattivo con loro e le si spezzava il cuore quando sparivano. O quando uno di loro moriva, singhiozzava e diceva: “È tutta colpa mia. Come ho potuto essere così crudele? Non prenderò mai più un altro gatto perché non mi merito di possederne uno”, anche se era stata la loro migliore compagna terrena.
Le Beth del mondo appaiono sempre contente di ciò che hanno, poco o molto che sia. Quando le era stato chiesto quale fosse il suo castello tra le nuvole, mia sorella Beth aveva detto con semplicità che il suo era restare a casa al sicuro con papà e mamma, e aiutare a prendersi cura della nostra famiglia, e desiderava solo che tutti stessero bene e fossero uniti. Ma era davvero questa la sua ambizione? Quel suo desiderio probabilmente nascondeva la sua voglia di non crescere mai. E così noi l'abbiamo sempre trattata come una bambina e ci siamo dimenticati che era una donna. Lei sembrava contenta di guardarci vivere, e basta. Le Beth del mondo spesso vivono per procura la vita di altri, che vedono come tutti dotati di meravigliosa genialità, mentre loro non riescono a vedere i propri talenti o non trovano mai il tempo per svilupparli adeguatamente, prese come sono dall’aiutare gli altri. Beth sentiva le gioie di tutti noi come le sue, esultando per i successi splendidi di ogni membro della famiglia, saltellando e cantando di gioia. Ma d'altra parte, si sentiva altrettanto abbattuta per i nostri fallimenti. Era sempre sulle montagne russe di qualcun altro.
Non essendo in grado di sopportare i conflitti, donne come mia sorella sono anche coloro che fanno fare a tutti la pace. Il motto di Beth era: “Gli uccellini nei loro piccoli nidi devono andare d'accordo”. Voleva che nessuno di noi avesse da dire o che ci beccassimo a vicenda, voleva che fossimo tutti gentili, premurosi e angelici come lei. Ma a quale prezzo personale lei reprimeva la sua rabbia e le sue lacrime?
Raramente vedevamo Beth piangere in realtà, perché quando era triste si asciugava gli occhi e lavorava in casa con tutte le sue forze, non perdendo tempo nel fare il suo dovere, poiché era per natura un'ape industriosa. Si muoveva silenziosamente per casa nostra come un topolino, pensando di essere stupida e inutile. Ecco perché era ansiosa di lasciare questo mondo. Le sembrava così lunga l’attesa. Voleva volar via subito, come volano le rondini, e andare in cielo.
Una delle sue canzoni preferite era ‘The Land of the Leal’ - una ballata scozzese che parla di una ragazza che muore giovane, bramando il paradiso e sentendosi ‘chiamata lì dagli angeli’ in quel luogo dove non c’è più sofferenza e lotta. Io al contrario ero troppo ribelle, troppo terrena per sentire cori celestiali. Sapevo bene, come Jo, di non appartenere al paradiso. E ora capisco che quella certezza è stata la mia salvezza, anche se al tempo la vedevo come un grave difetto.
Per mantenere tutti felici, Beth cercava sempre di sembrare positiva. A volte però, quando non stava bene e finalmente osava chiederci aiuto, dicendoci: “Vorrei che questa cosa la facessi tu per una volta”, non sempre prendevamo sul serio le sue richieste.
“Sono troppo stanca”, ci lamentavamo.
“Non puoi farlo TU?” chiedevamo.
“Perché non ci vai tu?” osavamo dire, come se lei non avesse già fatto abbastanza o non fosse più stanca di tutte noi messe insieme.
All'inizio Beth resisteva all'impulso di servirci e si riposava un po', si sdraiava sul divano e aspettava che qualcun altro facesse il proprio dovere. Ma le Beth del mondo non riescono a rimanere egoiste a lungo. Se nessuno fa il proprio dovere e qualcun altro rischia di soffrire per quella mancanza di attenzioni, ecco che si mettono su silenziosamente il cappuccio, riempiono i loro cestini di provviste ed escono nell'aria fredda con la testa pesante e uno sguardo addolorato nei loro occhi pazienti, per andare a fare ciò che è necessario.
Ma alla lunga, quel filo sottile si spezzò…
La goccia che fece traboccare il suo vaso fu la scarlattina che si era beccata da alcuni bambini poveri immigrati, ammalatisi per aver vissuto in una stanza dove prima di loro erano stati tenuti dei maiali. Nostra madre, con il nostro aiuto, li aveva curati e sfamati, un po’ come ho narrato in ‘Piccole Donne’. Sì, anche mia madre era un altro ‘angelo del focolare’, ma talmente presa dall’aiutare gli altri che non sempre riusciva a proteggere le sue stesse figlie dal pericolo, come in questo caso.
Un eccesso di empatia, potremmo dire.
Fu solo allora, con Beth ormai seriamente malata, che abbiamo iniziato a renderci tutti seriamente conto del suo valore e a sentirci in colpa e a dirci:
“Non potrei mai perdonarmi se morisse!”
È allora che iniziammo a dedicarci tutti a lei giorno e notte. Non un compito difficile, badate bene, perché le ragazze come Beth sono molto pazienti e sopportano il loro dolore senza lamentarsi, finché riescono a controllarsi. Ma quanto ci sembrarono bui quei giorni, quanto triste e solitaria la casa, senza il calore, la cura e le azioni amorevoli di Beth, e quanto pesanti i cuori dei membri della mia famiglia mentre lavoravamo e aspettavamo buone notizie, mentre l'ombra della morte aleggiava su quella nostra casetta un tempo felice.
Quando peggiorò, io cominciai a dormire sempre in camera con lei perchè amava avermi lì con sé. Diceva che si sentiva “forte” quando le ero vicina, e io ero così felice di esserle utile. Lei si sentiva come un piccolo passerotto e diceva che io invece ero un gabbiano, come quelli forti che non hanno paura delle tempeste e sfidano il vento. Suo cognato le comprava la frutta che lei amava molto e la nostra domestica spesso le cucinava i suoi piatti preferiti. Nostro papà smise di viaggiare per tenere le sue conferenze e le leggeva dei libri ad alta voce, e nostra sorella Anna si occupava al posto suo della casa e delle pulizie in modo che mia Madre ed io potessimo dedicarci al nostro angelo. Io smisi di scrivere i miei libri e trascorrevo con lei anche metà delle mie giornate, oltre a tutte le mie serate, e un nostro caro concittadino le regalò addirittura un bel pianoforte!
Ora, questo è il punto in una storia romantica in cui qualcuno abbastanza sensibile impara finalmente a vedere la bellezza e la dolcezza della natura di una povera eroina come Beth, a sentire quanto profondo e tenero sia il posto che occupa in tutti i cuori, e a riconoscere il valore dell'ambizione altruistica di Beth di vivere per gli altri e di renderli felici attraverso l'esercizio di quelle semplici virtù che tutti possono possedere se si sforzano, e finalmente la premia dandole quel che ha sempre voluto. In ‘Piccole Donne’, ad esempio, avrei potuto far guarire Beth, e farle trovare un bel ricco dottore che le avrebbe chiesto di sposarla al suo capezzale, colpito dalla sua celestialità e sofferenza, e facendola guarire con il suo amore. The end!
Molti altri romanzi finivano in quel modo da noi, ma non è così che funziona la vita, e io volevo essere onesta. Ecco perchè non ho dato a Beth un happy ending.
Ormai a quel tempo avevo già imparato la dura lezione della sindrome di Beth, e non volevo contagiare nessuno. Non volevo celebrare più del dovuto l’abnegazione, dopo aver visto quanto l’aveva indebolita.
Certo, a un primo colpo d’occhio mia sorella Beth aveva alla fine ottenuto tutto ciò che voleva, tutto quel che non aveva mai osato chiedere ad alta voce, o cercato di prendersi da sé. “Che bello, finalmente!” potreste pensare. “Se lo meritava!”
Ma non è tutto oro quel che luccica…
Mettetevi ancora una volta nei suoi panni.
Certo, Beth era finalmente al centro di tutti i nostri pensieri e ci aveva tutti vicini, e dopo anni a sentirsi sottovalutata e inutile aveva finalmente tutta l’attenzione, l’ammirazione, tutte le cure e le piccole, grandi cose che aveva sempre desiderato di ottenere, ma a che prezzo personale? Stava morendo... E a che prezzo anche per me e la mia famiglia?
Ai miei tempi, il mondo diceva a noi donne che sacrificarsi all’eccesso o farci piccole ed apparire fragili era un valore positivo. Ma incentivare la debolezza ci rende solo ancora più deboli o disprezzate, alla lunga.
Ovviamente sarebbe disumano non essere gentili con un’invalida ormai dolorante o che sta per morire, ma proprio per questo la sindrome di Beth va prevenuta, più che curata. Noi invece avevamo sempre premiato l’eccesso di empatia e spirito di sacrificio di mia sorella fin da quando era piccola, anzi, fin dal suo battesimo…
‘Nomen omen’ dicono latini, e Beth era stata chiamata così in onore di Elizabeth Peabody, un'educatrice americana molto altruista che tutti noi amavamo, e amica di nostro padre. Beth sembrava quindi destinata a servire gli altri fin dalla nascita.
“Lascia che faccia qualcosa per te, senza prendere nulla per me stessa!” era il suo grido di battaglia quotidiano. Se qualcun altro voleva qualcosa, lei smetteva quel che stava facendo e cedeva, e noi l’avevamo sempre lodata per quello. Celebravamo il suo essere un tale angelo, invece di fermare fin dall'inizio la creazione di un circolo vizioso mortale, che la indeboliva fisicamente e mentalmente. Abbiamo tutti partecipato a minare l’autostima di Beth. Non eravamo dalla parte del rafforzarla. Al contrario, abbiamo premiato la sua debolezza, o l’uso improprio della sua energia, e così Beth si è sforzata al massimo per rendersi ancora più debole, e il ciclo è peggiorato.
Dopotutto, avevamo tutte imparato la lezione dell'abnegazione fin da bambine in casa Alcott. Le donne della mia famiglia valorizzavano tutte l'altruismo. Ci veniva sempre insegnato a mettere i bisogni degli altri al primo posto. Questa, ad esempio, è una lezione del maestro che avevamo a Fruitland, il quale un giorno mi chiese:
“Quali sono le tipologie più preziose di abnegazione e autocontrollo?”
“Quelle sull’appetito e il cattivo umore” io gli risposi.
“E come si riconosce l'autocontrollo del cattivo umore?”
“Se controllo il mio umore, sono rispettosa e gentile, e tutti lo vedono.”
“E qual è il risultato di questa abnegazione?”
“Che tutti mi amano, e io sono felice.”
“Perché l'abnegazione è cosa buona e giusta?”
“Per il bene di me stessa e degli altri.”
“E come impareremo questa abnegazione?”
“Prendendo la decisione di farlo, e poi provandoci con impegno.”
Beh, lasciate che vi dica che la piccola Louisa si impegnò e ci provò fino a cinquant'anni, ma senza grande successo! Mia sorella Beth invece si impegnò molto più di me chiaramente, ma proprio mentre io pensavo di essere un fallimento, in realtà stavo proteggendomi da una sindrome mortale.
Ma le lezioni sulla bellezza dell'essere angeliche, dell’essere delle martiri sofferenti, erano ovunque ai miei tempi: dal pulpito della Chiesa ai libri che leggevamo a scuola, dalle storie romantiche dei romanzetti agli esempi delle nostre stesse mamme. Due anni prima che Beth morisse, ad esempio, mi ero letta una biografia su Santa Elisabetta di Turingia, una donna tedesca benestante molto altruista che morì giovane e fu ricordata per la sua gentilezza. Probabilmente Beth si riconobbe molto in lei, ed entrambe non a caso morirono giovanissime.
Comunque, tornando a Beth, grazie a tutto l’amore e le attenzioni che le demmo, come il sole dopo la tempesta, alla fine la nostra invalida si riprese e migliorò rapidamente e si sentì molto grata per tutte le sue benedizioni: "Sono così piena di felicità che non potrei contenere una goccia in più!" ci disse quando si riprese per la prima volta dalla malattia, perché le persone che possono sentire profondamente il dolore, possono anche apprezzare profondamente il piacere. Ma quel miglioramento non durò a lungo, anche se il suo declino fu inizialmente molto graduale.
L’ agosto 1857 fu un mese molto triste e pieno di ansie, anche se Beth era molto paziente e dolce e raramente si lamentava e parlava sempre della speranza di “stare meglio presto”. Nostra madre la portò anche al mare, ma ormai si stava spegnendo velocemente e una grande ombra cadde sul mio cuore nel vedere la sua malattia che progrediva. In ottobre tornammo a vivere a Concord, nella Orchard House che ora è un Museo, e allestimmo per lei la stanza più piacevole della casa, e lì dentro raccogliemmo tutto ciò che amava di più: fiori, libri, quadri e gli amati gattini, ma anche qui, temendo di poterli contagiare, Beth si privò della loro amata presenza, per proteggerli. Le Beth del mondo sono estremamente materne.
E in questa stanza, venerata come una santa domestica nel suo santuario, sedeva Beth, tranquilla e indaffarata come sempre, perché nulla poteva cambiare la sua natura dolce e altruistica, e anche mentre ormai stava morendo, le sue dita non restavano mai inattive. Cuciva, leggeva e canticchiava, preparava regalini per i bambini del vicinato o restava sdraiata a guardare il fuoco, così dolce e paziente e così scheletrica che mi si spezzava il cuore a vedere il cambiamento.
Anche se mia sorella era molto buona e simile alla Beth di ‘Piccole Donne’, c’è un dettaglio molto rivelatore che non ho aggiunto nel libro, ma è giusto voi sappiate... Durante la sua ultima malattia, la mia cara Beth ebbe un breve periodo in cui smise di essere la più angelica delle sorelle e improvvisamente iniziò ad aggredire verbalmente le persone intorno a lei, chiamando ad esempio nostra sorella Anna ‘orribile’, ed essendo nervosa e irritabile. Voleva essere lasciata in pace da tutti. Parlare la stancava, le persone la turbavano, il dolore la reclamava come sua, e il suo spirito tranquillo era tristemente turbato dai mali che affliggevano la sua debole carne. Naturalmente noi tutti pensammo che quel comportamento fosse molto strano, totalmente diverso dalla solita Beth.
Ma forse la vera Beth, la Beth umana e terrestre che lei aveva cercato con forza di reprimere per tutta la vita, con il nostro beneplacito e quello di tutta la società, stava semplicemente venendo in superficie per respirare un'ultima volta con la forza che le era rimasta.
Quel suo sfogo non durò, e noi di certo non ne incoraggiamo altri. Vedemmo solo quel periodo come la triste eclissi di un’anima serena, e poi la ribellione finì, e la pace tornò più bella che mai. Dopo quel suo unico e ultimo sfogo, si preparò tranquillamente a morire e tornò ad essere il nostro perfetto “angelo del focolare”.
A gennaio il Dottore ci disse che non c'era speranza. Lei era contenta di sapere che stava per “guarire”, come chiamava il paradiso, e noi cercammo di sopportare l’idea coraggiosamente per amor suo. In quei mesi il mio cuore ricevette l'insegnamento di cui aveva bisogno. Lezioni di pazienza mi furono insegnate così dolcemente che non potevo non impararle. Vederla affrontare la morte con tanto coraggio fece più per me dei sermoni più saggi, degli inni più santi, delle preghiere più ferventi che qualsiasi voce potesse pronunciare, perché con occhi resi chiari da molte lacrime, e un cuore addolcito dal più tenero dolore, riconobbi il dramma della vita di mia sorella – così priva di eventi, senza ambizioni, umile e dimentica di sé - tutte virtù che la rendevano adatta al Paradiso, ma non alla Terra.
Quando era vicina alla morte, Beth un giorno mi disse: “Ho la sensazione che non fosse mai stato previsto che io vivessi a lungo. Non sono come il resto di voi. Non ho mai fatto piani su cosa avrei fatto da grande. Non riuscivo a immaginarmi in altro modo che come la stupida piccola Beth, che trotterella per casa, inutile ovunque tranne che qui.”
E io ora mi chiedo: perchè non l’avevamo incoraggiata a fare quei piani, e a diventare un forte gabbiano a sua volta?
Ma non voglio incolpare me, i miei genitori, e tanto meno la cara Beth per quella sua eccessiva empatia e per aver speso tutte le sue energie per le vite degli altri o per difendersi dagli altri, senza pensare a sviluppare, rafforzare o proteggere se stessa.
La lotta per evitare la sindrome di Beth non è solo una lotta tra una donna e se stessa, o una donna e la sua famiglia e una donna e il suo passato. L'origine di questa sindrome è ben più ampia. Ai miei tempi veniva rafforzata continuamente dal sistema di valori religiosi che governavano il nostro mondo e dal nostro sistema etico e romantico. Non so se è così ancora oggi per voi.
La mia cara sorellina morì il 14 marzo dopo due anni di paziente sofferenza. Ciò che aveva sofferto le si leggeva nel volto, perché a soli ventitré anni sembrava una donna di quaranta. Come scrissi in una poesia per lei in quei giorni:
“La morte ha canonizzato per noi una santa,
più divina che umana,
E ancora deponiamo, con tenero lamento,
le sue reliquie in questo santuario domestico.”
Il primo lutto in una famiglia cambia la vita dei suoi membri e spezza gli equilibri più fragili. Quell'esperienza cambiò anche me, e inizialmente mi sviluppò spiritualmente. Non avevo mai avuto paura della morte, e da quel giorno fui pronta ad affrontarla con più fede nel Paradiso.
Quanto alla vita, come scrissi un'altra poesia per lei intitolata “My Beth”:
“La mia grande perdita (diventerà) il mio guadagno.
Il tocco del dolore renderà
La mia natura selvaggia più serena,
Darà alla mia vita nuove aspirazioni,
Una nuova fiducia nell'invisibile.”
Beh, ho mentito…
La sua morte non ha reso affatto la mia natura più serena. Ma all'epoca, questo è quel che mi ero ripromessa: che sarei stata più come lei, in sua memoria. Ed è così che la sindrome di Beth viene trasmessa da una donna all'altra. Mi ero ripromessa di diventare angelica come lei perché questo era ciò che Beth stessa mi aveva fatto promettere. Prima di morire infatti, mi aveva fatto un'ultima richiesta:
“Devi prendere il mio posto, Louisa”, mi disse, “ed essere tutto per papà e mamma quando me ne sarò andata. Si rivolgeranno a te, non deluderli, e se sarà difficile lavorare per loro a casa da sola, ricorda che io non ti dimentico, e che sarai più felice nel servirli, che nello scrivere splendidi libri o viaggiare per tutto il mondo, perché l'amore è l'unica cosa che possiamo portare con noi quando ce ne andiamo, e rende il distacco così facile.”
“Ci proverò, Beth” le avevo risposto tra le lacrime, e lì per lì rinunciai alla mia vecchia ambizione di scrivere un romanzo famoso e di diventare finanziariamente indipendente, impegnandomi per un nuovo e migliore obiettivo e riconoscendo la povertà di tutti gli altri miei desideri.
La sindrome ormai mi aveva contagiata quasi del tutto.
All'inizio fu facile prometterle abnegazione quando cuore e anima erano purificati dal suo dolce esempio. Ma quando la sua voce tacque, e non ricevetti più la sua lezione quotidiana, e la sua amata presenza era scomparsa, e nulla rimase se non solitudine e dolore, allora vi confesso che trovai la sua promessa molto difficile da mantenere…
Lo spirito casalingo di Beth non indugiò a lungo intorno al piccolo mocio e allo straccio di casa.
Ora, se io fosse stata l’eroina di un racconto morale, a questo punto della mia vita avrei dovuto rinunciare per sempre al mondo, ai miei sogni, e avrei dovuto andarmene in giro a fare del bene, con un cappellino nero, e l’anima mortificata. Ma io non ero un'eroina, o perlomeno non credevo di esserlo… Proprio come Jo ero solo una ragazza che manifestava la sua natura umana, sentendomi e mostrandomi triste, di malumore, apatica, o energica, a seconda del mio umore del giorno, una ragazza che voleva ancora lottare per i suoi sogni con tutte le sue forze, vestirsi comoda, comportarsi anche da maschiaccio se lo voleva, e senza sentirsi troppo in colpa per quel suo essere piena di spirito e ambiziosa.
Non mi ero ancora resa conto di quanto fosse rivoluzionaria una Jo al tempo…
Giuro che provai in modo cieco e disperato a fare il mio dovere a casa, ribellandomi segretamente nel frattempo contro quel destino, perché mi sembrava ingiusto che la mia vita diventasse sempre più dura mentre faticavo per gli altri! Alcune persone sembravano ottenere solo raggi di sole, e io solo nuvole. Mi ero spesso detta che volevo fare qualcosa “di splendido e di difficile” nella vita, e invece stavo ora dedicando come Beth tutta me stessa ai lavori domestici e alla mia famiglia, cercando di rendere la casa felice per loro, ma a mie spese, proprio come lei. La sua sindrome mi stava lentamente uccidendo. All'inizio pensai: “Beh? Cosa potrebbe esserci di più splendido e difficile per una ragazza irrequieta e ambiziosa come me che rinunciare alle proprie speranze, piani e desideri, e vivere allegramente per gli altri?” - Beh, è molto virtuoso dire che saremo buoni, e io riuscii a fare il mio dovere per un po', ma non allegramente!
Furono giorni bui quelli per me, perché la disperazione mi assalì quando pensai di trascorrere tutta la mia vita come Beth, nella nostra casa tranquilla, dedicata a cure banali come una Cenerentola, con pochi piaceri e un dovere che non sembrava mai diventare più facile da sopportare. Scope e strofinacci mi erano ancora disgustosi come prima.
“Non ce la posso fare. Non ero destinata a una vita come questa, e so che scapperò e farò qualcosa di disperato se qualcuno non viene ad aiutarmi!” esclamai un giorno!
Vedete? Stavo già iniziando anch’io ad aspettare un salvatore, un aiuto esterno. Sentirsi impotenti è uno dei classici sintomi di questa sindrome, dopo tutto. Mi sentivo risentita, rassegnata, scoraggiata. Mi mancavano la fede, la pazienza e l'altruismo di Beth e iniziai a disperarmi. Non riuscivo ad essere un angelo, e mentre cercavo di esserlo, stavo in realtà perdendo la volontà... di essere umana. Dopo alcuni mesi mi sentii più scoraggiata che mai, e poiché sembravo essere ancora l'unica che guadagnava il pane in casa mia, tanto per cambiare, me ne andai a Boston alla ricerca di un impiego, anche perchè la malattia di Beth ci aveva anche lasciato molte bollette del Dottore da pagare.
Durante quei tristi giorni passati al fianco di Beth, avevo scritto nel mio diario:
"Sarò migliore per tutta la vita grazie a queste ore tristi passate con lei." Beh, non fu così. Non diventai santa come Beth. Al contrario, persi la voglia di vivere…
Una volta a Boston, ebbi i miei momenti di più cupa disperazione, e odio ammetterlo ma un giorno mi sentii tentata di lasciare questo mondo.
Come descrissi in uno dei miei romanzi, stavo camminando sulla diga di un mulino, e il ruscello che scorreva mi riportò alla mente il ‘Fiume della Morte’ descritto nel libro preferito di Beth: ‘Il Progresso del Pellegrino’, l’ultimo difficile fiume da superare prima di poter entrare in paradiso, il fiume che avrebbe posto fine a tutti i miei problemi.
Fu solo un impulso momentaneo il mio, e il mio coraggioso giovane cuore per fortuna si riprese al pensiero che: "C'è qualcosa di positivo che mi aspetta, e lo otterrò!". All'improvviso mi sembrò così codardo scappare prima che la battaglia fosse finita. Non riuscii a farlo. Non potevo. E così tornai a casa decisa a prendere il Destino per la gola e a strappargli qualcosa di buono a furia di scuoterlo!
Quella decisione fu la mia miglior medicina, e cominciò ad agire presto.
Dopo il mio momento di disperazione diventai più coraggiosa e allegra, e lavorai sodo con tanta buona volontà. Così lontana da tutte quelle influenze negative e persone negative che non facevano altro che celebrare l’impotenza, la sofferenza e l’abnegazione, avevo interrotto quel circolo vizioso che mia sorella non era mai riuscita ad rompere.
Imparai che il lavoro della testa e delle mani è una salvezza, quando la delusione o la stanchezza appesantiscono e oscurano l'anima. Sentivo che avrei saputo scrivere meglio di prima ora – con la forza della verità delle cose che avevo sentito e vissuto e che quindi conoscevo bene.
Quando tornai a casa, il mio caro padre, che aveva insegnato a Beth ad affrontare la morte senza paura, stava ora cercando di insegnare a me ad accettare la vita senza sconforto o diffidenza. Ma le belle parole non bastavano, e fu mia madre che sapeva ciò di cui avevo bisogno per guarire del tutto da quella malefica sindrome:
“Perché non scrivi? Questo ti ha sempre reso felice” mi disse un giorno, quando il momento di scoraggiamento mi sovrastava.
“Non ho cuore per scrivere, e se l'avessi, a nessuno importano le cose che ho in testa.”
“A noi importa. Scrivi qualcosa per noi, e non preoccuparti del resto del mondo. Provaci, cara. Sono sicura che ti farebbe bene, e a noi piacerebbe molto.”
“Non credo di saperlo fare” risposi, ma non avevo rinunciato del tutto alla speranza che un giorno avrei scritto un gran bel libro, ed ero sicura che ora potesse essere un romanzo ancora migliore, grazie alle esperienze che avevo avuto. Alla faccia dell’ambizione! E così tirai fuori il mio scrittoio portatile, iniziai a rivedere il mio manoscritto incompiuto e finii per scrivere “Piccole donne”.
Non saprò mai come sia successo, ma qualcosa entrò in quella storia che andò dritto al cuore di chi la lesse. Lettere da diverse persone, il cui elogio era un onore, seguirono l'apparizione della piccola storia, i giornali gentilmente scrissero buone recensioni, e sia estranei che amici la ammirarono. Per essere un piccolo libricino, fu subito un grande successo, e vendette migliaia di copie in poche settimane.
“Non lo capisco. Cosa può esserci in una semplice piccola storia come quella per far sì che la gente la lodi così?” chiesi alla mia famiglia e agli amici, del tutto perplessa.
“C'è molta verità in essa, Louisa, questo è il suo segreto. Umorismo e pathos la rendono viva, e hai finalmente trovato il tuo stile. Ci hai messo il cuore. Hai avuto l'amaro nella vita, ora viene il dolce. Fai del tuo meglio, e diventa felice come siamo noi nel tuo successo.”
Se voi lettrici date ragione a mia mamma e credete a vostra volta che ci fosse qualcosa di buono o vero in ciò che ho scritto, ora sapete che non è merito mio. Lo devo tutto ai miei due angeli: mia madre e Beth. Ma anche questo potrebbe essere un altro sintomo della sindrome, dove mi dimentico di dare a me stessa il valore che merito! Sì, forse non sono ancora guarita completamente… Dopotutto, anche se ormai sono ricchissima, continuo a scrivere un libro dopo l'altro, per assicurarmi che mia sorella Anna, i suoi bambini e la cara figlia di May siano tutti finanziariamente al sicuro, ma vi confesso che sono piuttosto esausta.
Quanto al resto della mia vita, ho accettato volentieri il mio destino, ma è un destino che ho creato da me e per cui ho lottato duramente, senza aspettarlo da nessuno e senza abbattermi. Ho lottato per essere me stessa. E sono lieta di non essere un angelo ma una scrittrice in carne ed ossa, questo è ciò che ho deciso di essere e sono stata: una zitella letteraria, con una penna come sposo, una famiglia di storie per bambini, e un bocconcino di fama e un po' di denaro ora che posso ancora godermelo e condividerlo con chi amo.
Quando Beth morì, avevo scritto nel mio diario: “Ora so cosa significa la morte – una liberatrice per lei, un’ insegnante per noi.”
Al tempo credevo che la mia lezione fosse diventare Santa come lei.
Ora mi rendo conto che la vera lezione era insegnare agli altri come liberarsi dalla sua sindrome. E ora sapete anche voi come si fa.
L’antidoto è nascosto in bella vista in 'Piccole donne'.
E il suo nome è 'JO'.
Io purtroppo non ho potuto salvare mia sorella, ma dando al mondo la mia creatura - Jo - con la sua onestà, i suoi difetti, la sua forza e la sua natura laboriosa - e il suo rifiuto di aspettare un salvatore, un ricco signor Laurence, o un marito a darle quel che voleva - ora so di aver aiutato milioni di lettrici.
Troppe donne come Beth imparano presto ad attirare amore e ciò che vogliono rimpicciolendosi nell'impotenza e nell’oscurità, ma la natura non premia la debolezza (o lo spreco delle energie). Anche se noi umani a volte la premiano, il prezzo che tutti paghiamo è altissimo, nel lungo termine.
Le mie lettrici hanno amato Jo perchè noi umani siamo anche attratti dal luminoso, dall’energia e dall'audacia. Dobbiamo imparare - e insegnare ai bambini - che possiamo attirare amore e quello che vogliamo anche con la luce, rafforzandoci e splendendo, invece che facendoci sempre più deboli, piccole e impotenti, ed è questo che fa Jo nel mio romanzo, proprio come ho provato a fare io per tutta la vita, seppur con grande fatica, scuotendo con vigore l’albero della vita, finchè non ho fatto una limonata con tutti i limoni che mi dava.
Ora capite anche voi perché le prime giovani lettrici, con mia iniziale sorpresa, incoronarono Jo come l’eroina del libro, e non Beth. Perché personaggi come Beth erano ovunque nella letteratura ai miei tempi, ma non c'era ancora nessuna Jo, e mancava molto.
Un’ultima cosa…
L'unico rimpianto di mia sorella Beth era stato di aver combinato così poco nella vita, e quindi, magari, se sentite che oggi vi ha insegnato una lezione, forse potete ringraziarla continuando a consigliare il libro di ‘Piccole Donne’ a qualche bambina, ma anche a qualche donna adulta, oppure condividendo questa lezione. In questo modo la sua vita non sarà stata inutile, ma so già che se fosse qui ora mi direbbe: “Non sono così buona come mi fai sembrare, ma ho cercato di fare la cosa giusta, ed è un tale conforto sapere che qualcuno sente che io li abbia aiutati.”
Sì che ci hai aiutate…
Grazie cara Beth per il tuo sacrificio.
Grazie Jo, per essere nata dalle ceneri del mio cuore spezzato.
E grazie a tutte voi per aver letto fino a qui.
Louisa May Alcott/E.V.A.
SPUNTI PER LA RIFLESSIONE PERSONALE:
DOMANDA n. 1: Voi vi sentite più una Beth o una Jo?
O siete cambiate negli anni da una all’altra? Avete cercato di ottenere quello che volevate (amore, denaro etc.) facendovi piccole e deboli o rafforzandovi e splendendo?
DOMANDA n. 2: Nomen omen: voi da chi avete preso il nome? C'è in quel nome un indizio del vostro destino, o di quello che i vostri genitori volevano per voi?
DOMANDA n. 3: Come etichetterebbero la sindrome di Beth gli psicologi oggi?
C-ptsd ? / Depressione? / Ansia sociale? / Bassa autostima?
DOMANDA n. 4: Le persone come Beth nascono così deboli ed empatiche o diventano così più tardi nella vita per imitazione? È natura o educazione?
DOMANDA n. 5: Come trattavate voi bambole, pupazzi, gattini o cagnolini da bambine? Cosa rappresentavano per voi? Li trattavate forse come avevate bisogno di essere trattate voi?
DOMANDA n. 6: Beth viveva per gli altri e si cibava delle emozioni degli altri. Come viviamo ‘per procura’ oggi? Ecco solo alcuni esempi: adorando una celebrità famosa e seguendo la sua vita sui social? O seguendo un personaggio di una lunga serie TV e provando i suoi sentimenti nel corso degli anni? Che altri esempi vi vengono in mente?
DOMANDA n. 7: Come potreste attirare l’amore o le cose che volete brillando, e con la vostra energia, e i vostri sforzi, invece che con la negatività o la debolezza? Come potete rendervi un po’ più forte, in parole o azioni, da oggi? Come potreste scuotere come JO il vostro albero di limoni e farne una limonata da oggi?
DOMANDA n. 8: Avete mai ottenuto benefici dall'essere deboli o malate nella vostra vita, soprattutto da bambine? La vostra debolezza o la vostra abnegazione è mai stata premiata dalla vostra famiglia, dai vostri cari o dallo Stato (sovvenzioni , disoccupazioni etc.) o dalla vostra religione, se religiose?
DOMANDA n. 9: Potete citare dalle news di cronaca esempi di cosiddetta “empatia eccessiva” come quella della mamma Alcott, dove le donne mettono i bisogni degli altri prima dei propri, a volte anche a rischio della propria stessa vita o quella dei loro stessi figli?
DOMANDA n. 10: Anche se alle bambine di oggi non vengono più fatte leggere “Le storie delle Sante Martiri” alle elementari per fortuna (anche se a me personalmente furono fatte leggere dalle suore, nel non lontanissimo 1981!!), quali altri ruoli femminili negativi, deboli, o eccessivamente empatici vengono proposti alle bambine di oggi in TV o sui social?
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PS Queste domande sono per le vostre riflessioni personali. Per questioni di privacy consiglio di non postare le risposte nei commenti, se contengono fatti privati.
Se però vi interessano le lezioni dell’Accademia delle Zitelle e volete partecipare al gruppo delle CONVERSAZIONI LETTERARIE, ci troveremo online per la prossima lezione la sera dell’ultimo venerdì di marzo, per esplorare le domande emerse dal prossimo libro del mese: ‘Mansfield Park’ di Jane Austen.
Le altre lezioni non verranno più postate sul sito.
COSTO (partecipazione più lezione e le domande per la riflessione personale):
5 euro a testa (per chi fa già parte di un qualsiasi Reading Club in inglese)
10 euro per gli altri.
Contattatemi qui o dovunque avete un mio contatto per prenotarvi.
Posti limitati!
Anche se buona parte delle frasi di questo articolo sono state selezionate pazientemente da frasi reali scritte dalla stessa Louisa May Alcott, usando quindi le sue parole e la storia della sua famiglia (tratta da sue lettere, diari e dalla prima biografia su di lei), questa lettera è un’opera di fiction, una sorta di scrapbooking creativo in cui ho unito la mia voce e le mie riflessioni alle sue, e mescolato il personaggio di Beth in ‘Piccole Donne’ con la Beth realmente esistita, cercando il più possibile di mantenere lo spirito della Alcott e vedendo ‘Piccole Donne’ con i suoi occhi, dopo molte riletture. Nella mia versione originale di questo articolo in inglese potrete trovare le parole esatte di Louisa, con tutte le fonti che ho utilizzato per le mie ricerche. Questo articolo è la sua traduzione in italiano.
ARTICOLO IN INGLESE: